Soliloquio del dolore – 10

La mia vita non è più una sequenza di giorni che si susseguono uno dopo l’altro, ma è fatta di un unico, interminabile giorno. La notte e il sonno non interrompono più niente e anche mentre dormo sono costretto a sostenere il peso dell’esistenza e del dolore. Anche mentre dormo sono, resto presente a me stesso e non conosco più riposo.
Vi sembrerà inverosimile, impossibile, crederete che stia assumendo una posa ed è naturale che sia così: la scrittura giunge fino a un certo punto e non si spinge mai oltre, è confinata entro limiti insuperabili. Per questo motivo il mondo ha continuato ad andare avanti come prima nonostante le parole di Socrate, di Cristo, di Petrarca e di Leopardi. La Bibbia e il Vangelo sono soltanto… libri, e non ci sarà mai nessuna punizione per i trasgressori, nessun inferno. I versi di Primo Levi posti in epigrafe a Se questo è un uomo sono soltanto… versi, e non si sfacceranno le case di chi dimentica, nessuna malattia impedirà agli immemori di vivere la loro vita e di guardare i figli negli occhi [54].
Io e Lei, attraverso la nostra corrispondenza, abbiamo sperimentato le potenzialità e i limiti della parola scritta e sapevo che il nostro rapporto, relegato esclusivamente alla forma epistolare, sarebbe andato incontro a una morte certa, annunciata. Dio, se penso a tutto ciò che non ci siamo detti in questo anno e mezzo, e che non ci diremo mai, a tutti quei pensieri e a tutte quelle sensazioni impossibili da descrivere a parole e che solamente uno sguardo, un sorriso, un gesto avrebbero potuto trasmettere, provo un dolore soffocante e una rabbia sorda e impotente. Non immaginavo che fossimo arrivati già a questo punto e speravo, lo ammetto, che il nostro incontro, tanto atteso e desiderato da entrambi, rappresentasse il coronamento del nostro carteggio, infondendogli un nuovo e rinnovato slancio. Comunque, considerando i limiti della scrittura, è quasi miracoloso che la nostra corrispondenza sia durata così a lungo e questo dimostra come tra di noi fosse nato qualcosa di veramente importante, un legame talmente forte e profondo da svilupparsi nonostante le circostanze e gli esigui mezzi di comunicazione a disposizione. Non solo io cercavo Lei da una vita, anche Lei mi cercava da tanto tempo e queste sue parole, insieme a tutte le altre, resteranno scolpite nella pietra, anche se, evidentemente, il loro significato si è esaurito nel giro di poco tempo.
La fiducia nelle parole è sempre stato un mio grande problema, lo so, ne sono consapevole. Ho sempre dato troppa importanza alle parole, in un mondo in cui esse non ne hanno più, non valgono più niente, sono meri suoni vuoti, nudi significanti del tutto privi di significato. Per me «per sempre» vuol dire «per sempre», «mai più» vuol dire «mai più» e credo che in questa fede completamente inattuale, fuori contesto nelle parole, risieda gran parte del mio dramma esistenziale. Grazie anche allo sviluppo tecnologico, alla diffusione di quegli immensi bidoni della spazzatura che sono i social networks, il «regno del silenzio» [55] profetizzato da Michelstaedter ha raggiunto oggi il massimo sviluppo. Gli uomini parlano senza dire niente, ripetono a memoria frasi e concetti altrui, luoghi comuni oramai cristallizzati, assorbiti dal tessuto sociale, di cui rappresentano le solide fondamenta, suonandosi «vicendevolmente come tastiera» [56]. Ovunque trionfa la rettorica, del male come del bene, senza colpo ferire, spina dorsale della società e dell’uomo socializzato. «Tutta la filosofia è critica del linguaggio», scrive Wittgenstein nel Tractatus Logico-Philosophicus [57]: noi oggi siamo giunti alla fine della storia del pensiero occidentale.
Come ho potuto anche solo pensare, anche solo immaginare di trovare un posto in questo mondo? Io che, come Kirillov, per tutta la vita «ho voluto che non fossero solo parole» e ho «vissuto proprio perché volevo questo, sempre» [58].
La scrittura è tradimento. Scrivere significa differire, programmare, fermare «arbitrariamente i concetti» [59]: Platone e gli evangelisti tradiscono Socrate e Cristo nel momento stesso in cui iniziano a trascriverne le parole. La trascrizione dei discepoli apre la via ai grandi, definitivi, irreversibili tradimenti di Aristotele e della Chiesa, che di Cristo usurpa simboli e parole allo scopo di «creare una potenza in terra» [60]. Se Cristo tornasse oggi sulla terra, «non troverebbe la croce ma il ben peggiore calvario d’un’indifferenza inerte e curiosa da parte della folla ora tutta borghese e sufficiente e sapiente – e avrebbe la soddisfazione di essere un bel caso pei frenologi e un gradito ospite dei manicomi» [61].
La scrittura è malattia e morte. In essa non c’è niente di pacifico, di conciliante: scaturisce da una dolorosa impossibilità di adattamento nell’umano consorzio, da una irriducibile condizione di alterità rispetto alla mediocre moltitudine, da un permanente stato di conflitto con se stessi e il mondo intero. La scrittura cancella ogni possibilità di felice intesa, di serena armonia con il proprio io e il mondo. Come spiega Thomas Mann in Tonio Kröger, la potenza dello spirito e della parola acuisce lo sguardo, rende «trasparenti le grandi parole che gonfiano il petto degli uomini», dischiude l’anima propria e altrui, rende chiaroveggenti e rivela «l’essenza intima del mondo e tutto, tutto quello che sta dietro le parole e le azioni» [62]. Ma cosa si nasconde dietro le parole e le azioni? «Comicità e miseria: nient’altro che comicità e miseria» [63]. Ecco cosa si cela dietro le parole, le azioni e nell’anima degli uomini, ecco a cosa si riduce l’essenza del mondo: non c’è altro.
Una scoperta terribile, che sarebbe meglio non fare, perché oltre alla nuda, spaventosa consapevolezza non offre altro, anzi, inaridisce per sempre, rendendo l’individuo incompatibile con le gioie mediocri, ma consolanti della vita e con l’azione, di cui vede chiaramente tutta la vanità, tutta l’inutilità. La scrittura imprime sulla fronte un marchio infame, come quello di Caino, che impedisce di infiltrarsi, di mimetizzarsi tra gli uomini comuni, gli «occhiazzurrini», gli estroversi: all’estraneità, all’emarginazione, all’esclusione non c’è alternativa. Con il «martirio e l’orgoglio del conoscere» viene la solitudine, una solitudine feroce, invincibile, perché la «vicinanza dei bonari, delle anime gaiamente ottenebrate» risulta intollerabile allo scrittore, il cui marchio infame turba chi gli sta intorno [64].
Lo scrittore, il vero scrittore non lavora «come tutti coloro che lavorano per vivere, bensì come uno che, in nessun conto avendosi quale uomo vivente, ma desideroso soltanto di essere considerato un creatore, null’altro voglia che lavorare, e per il resto se ne vada attorno grigio e insignificante, pari all’attore che ha smesso il trucco e che non è nulla se nulla ha da rappresentare» [65]. Il vero scrittore lavora «muto, chiuso, invisibile e pieno di disprezzo verso quei piccoli mestieranti per i quali l’ingegno non è che ornamento da società» – i vostri celebri e insignificanti scribacchini contemporanei «convinti di menare una vita insuperabilmente felice, affascinante ed artistica» [66]. Egli sa, prova ogni giorno sulla propria pelle «che colui che vive non lavora e che, per essere perfetti creatori, bisogna essere morti» [67].
Il vero scrittore trascende la condizione umana, diviene qualcosa di inumano, vive in una dimensione «lontana e neutrale», freddo e distaccato, incontentabile, immiserito e svuotato, malato: «una persona sana e ammodo non scrive, né recita, né compone… […] C’è da chiedersi se l’artista, in fondo, sia un uomo» [68].
La scrittura è una maledizione:

La letteratura non è affatto una vocazione; è una maledizione… perché lo sappiate. E quando principia a farsi sentire questa maledizione? Presto, terribilmente presto. A un’epoca in cui si potrebbe ragionevolmente pretendere di vivere d’amore e d’accordo con Dio e con il mondo, uno comincia a sentirsi segnato, a rendersi conto d’essere in incomprensibile contrasto con gli altri, coi normali, con la gente ordinaria; sempre più fondo si scava l’abisso d’ironia, d’incredulità, d’opposizione, di lucidità, di sensibilità, che lo separa dagli uomini; la solitudine lo inghiotte, e da quel momento non c’è più possibilità d’intesa. Che destino! Ammesso che nel cuore gli sia rimasto quel tanto di vita, quel tanto d’amore che basti a giudicarlo orribile!… La vostra consapevolezza si infiamma, perché in mezzo ad una massa di migliaia voi sentite che un marchio vi sta impresso in fronte, e capite che a nessuno passa inosservato. […] Un artista, un vero artista – non uno che abbia l’arte per professione borghese, ma per cui l’arte sia predestinazione e condanna – è distinguibile tra una folla umana allo sguardo meno esperto. Il sentimento di essere a parte, di non fare tutt’uno con gli altri, d’essere riconosciuto e osservato, qualcosa di regale e d’impacciato insieme gli sta dipinto in viso. […] Non c’è abito borghese che tenga […] Uno può mascherarsi, camuffarsi finché vuole […]: basterà che alzi gli occhi, che debba pronunciare una parola, perché ciascuno sappia che quello non è un uomo, bensì qualcosa di straniero, di scostante, di diverso… [69].

Ma Tonio Kröger conosce il successo, la fama, l’affermazione e per questo motivo è così incline a una «struggente nostalgia» per le «cose innocenti, semplici e vive, per un poco di amicizia, di abbandono, di confidenza e di umana felicità», per le «gioie mediocri» insomma. Tonio Kröger trova conforto nel riconoscimento; delle proprie attitudini letterarie, della propria maledizione fa il suo mestiere e questo lo rende immune alla vera, profonda, distruttiva disperazione. Pensate al vero scrittore che vede, sente e sa come il personaggio di Mann, ma resta ignoto, sconosciuto, impubblicabile: questo povero disgraziato deve lottare ogni giorno con se stesso e il mondo intero per resistere, credetemi. Tra il dolore e il nulla egli è costretto suo malgrado a scegliere il nulla.

NOTE

[54] «Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi» (Primo Levi, Se questo è un uomo, La tregua, Einaudi, Torino 1989, p. 7).

[55] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 173.

[56] Ivi, p. 174.

[57] Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus e Quaderni 1914-1916, traduzione di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino 1964, p. 21.

[58] Fëdor Dostoevskij, I demoni, cit., p. 670.

[59] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1995, p. 246.

[60] Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, cit., p. 181.

[61] Ivi, p. 183.

[62] Thomas Mann, Tonio Kröger, cit., p. 229.

[63] Ivi, p. 230.

[64] Ibidem.

[65] Ivi, p. 231.

[66] Ivi, pp. 231-232.

[67] Ivi, p. 232.

[68] Ivi, p. 237.

[69] Ivi, pp. 238-239.

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